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Il Giro d'Italia 2006

Ultimo Aggiornamento: 29/05/2006 04:12
02/05/2006 14:52
 
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L’Italia di Ullrich: «Pasta e Sassicaia per battere Basso»

S e solo riuscisse a vincere il Giro d'Italia potrebbe dire al mondo intero di aver conquistato tutto ciò che di più importante c'è sul pianeta in materia di ciclismo. Un Tour l'ha vinto, così come una Vuelta, un titolo olimpico e un mondiale (a cronometro), eppure Jan Ullrich, croce e delizia dello sport tedesco, verrà al Giro d'Italia con un solo obiettivo: preparare il Tour de France. Abbiamo raccolto il suo pensiero alla vigilia della partenza del Giro d'Italia, che scatterà sabato prossimo da Seraing, in Belgio. Ascoltiamolo.
Insomma, viene al Giro pensando al Tour...
«Il Giro mi piace, ma la mia priorità resta la corsa francese. Certo, non vengo in Italia per portare in giro la bicicletta, un segno della mia presenza vorrei lasciarlo, magari vincendo una bella tappa».
In chiave Giro chi sono secondo lei i favoriti?
«I soliti nomi: Basso, Savoldelli, Cunego, Simoni e Di Luca, ma qualcosa potremmo inventarci anche noi della T-Mobile».
E in chiave Tour, chi teme di più: Ivan Basso o le strategie di Bjarne Riis?
«Conosco tutti e due, però per vincere il Tour bisogna essere semplicemente i più forti. Io credo che il ciclismo non sia così difficile: chi pedala più forte vince e io penso di poter vincere, perché pedalerò più veloce di Basso e di tutti gli altri. E poi, se non mi dovesse andare bene, ci riproverò: fino alla fine della mia carriera proverò sempre a vincere il Tour, la corsa dei miei sogni».
Cosa pensa di Basso: crede davvero che sia lui l'avversario più temibile?

Forte è forte e l'ha anche dimostrato, ma non è il solo. Ce ne sono anche altri: sicuramente Vinokourov darà il meglio di sé e gli spagnoli non vorranno essere da meno».
Le piace l'Italia: ha mai pensato di poter un giorno venire a vivere nel nostro Paese?
«Sto bene dove vivo adesso, vicino agli amici, vicino a mia figlia. Però per allenarsi l'Italia è un Paese davvero meraviglioso».
Quale piatto preferisce?
«In verità io adoro i vostri vini, il Sassicaia su tutti, di cui sono un cultore collezionista, ma anche un buon piatto di pasta fatto in casa mi delizia non poco».
C'è una cosa che meno le piace di noi italiani e quella che le piace più di tutte?
«A me l'Italia piace moltissimo: siete persone gentili e soprattutto sapete vivere bene. Amate i piaceri della vita e per questo è piacevole stare con voi. Cosa non mi piace? Lasciare l'Italia».
Lei ha passato momenti di grande sconforto, momenti nei quali ha anche pensato al ritiro: che idea si è fatto del dramma vissuto da Marco Pantani, un grande campione che non ce l'ha fatta a rialzarsi?
«È facile dire “bisogna pensare positivo e andare avanti”, ma non è così semplice. Io sono stato per tanto tempo al buio, poi un giorno ho cominciato a rivedere la luce. Forse ho avuto fortuna, ho incontrato sulla mia strada gente giusta, io non so chi abbia incontrato Marco e non conosco nemmeno bene la sua storia. Posso solo dire che mi dispiace tantissimo che Pantani si sia lasciato morire, che si sia chiuso in se stesso, che abbia perso la sfida più importante. Marco è stato un corridore eccezionale, che in salita ha fatto vedere cose uniche. Per me era un buona persona. Troppo buona».
Qual è la critica più ingiusta che le hanno mosso in questi anni?
«Tante, ma ho imparato a non ascoltare. Nessuno è perfetto e nemmeno Jan Ullrich lo è. Ma una cosa è certa: io ho sempre dato il massimo. E continuerò a farlo».
Quando ha imparato ad andare in bicicletta?
«A cinque anni e mezzo. Era la bicicletta di mio fratello, vecchia però di vent'anni, senza cambio di velocità. Il primo giretto finì dopo 30 metri, contro i bidoni della spazzatura».
Si ricorda la prima vittoria?
«Sì, a nove anni, in una corsa campestre: vinsi, battendo ragazzini anche di tre anni più grandi. E fu grazie a questa vittoria che mi si spalancarono le porte del ciclismo. Un giorno Peter Sager, il mio allenatore, si presentò da mia mamma. Con sé aveva una tuta color rosso vino, maglie da ciclista con tasche e maniche applicabili e scarpe da ginnastica. E poi una bicicletta Diamant di colore blu. Da quel momento non pensai ad altro che al ciclismo: prima gara, prima vittoria».
Primo anche a Oslo...
«Era il 1993, mi laureavo campione del mondo dilettanti: quella fu una delle giornate più belle della mia vita. Io avevo appena diciannove anni, e quando rientrai in Germania, all'improvviso non ero più uno sconosciuto. Quell'anno, sullo stesso circuito, a ventun anni, si laureò campione del mondo dei professionisti Lance Armstrong, un ragazzo texano che imparai a conoscere molto bene».
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