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Nozze solo etero? No, grazie

Ultimo Aggiornamento: 30/06/2011 13:55
09/09/2010 01:10
 
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Il monologo di Tim e il divieto
di costruirsi una vita assieme

di Ivan Scalfarotto
Londra, West end. Le luci si spengono come un sipario che si chiude. La gente applaude, e si alza dalle poltrone ancora al buio, con gli occhi umidi. Anche il protagonista deve essersi commosso: si vede bene in questo teatro senza palcoscenico, dove gli attori recitano talmente vicini che potresti toccarli. L’attore che fa Tim, il personaggio principale, ha appena terminato un monologo fortissimo. È l’ultimo grido di un uomo che ha perso il compagno di una vita, e con lui la sua vita: «La cosa più complicata è avere tutto questo amore per te che non ritorna indietro. Mi innamoro di tutti, a ogni momento, ma è soltanto il bisogno di te che non sa più dove andare. Sei come un buco nella mia vita, un buco nero. Mi manchi terribilmente». Il teatro è pieno. Abbiamo appena assistito ai quindici anni di vita insieme di Tim e di John. John quello bello, il capitano della squadra di football della scuola. Quello che Tim non avrebbe mai pensato sarebbe stato suo. Holding the man è la riduzione teatrale del meraviglioso romanzo di Timothy Conigrave, che l’Aids ha portato via nel 1994, due anni dopo la morte del compagno, John Caleo.

Vado a vedere lo spettacolo con il mio Federico e due amici. Il primo tempo passa spensierato e allegro, come la giovinezza dei protagonisti. Il secondo tempo, invece, quello più drammatico della malattia condivisa e della morte, è indimenticabile. Arriviamo alla fine provati, sopraffatti emotivamente da una storia che, con tutto il suo dolore e le sue contraddizioni, è principalmente la storia di un grande amore, di quelli che ispirano una vita intera. Dallo sfumare dell’ultimo applauso ho continuato a pensarci per giorni. Come per giorni avevo pensato alla disperazione del bacio rubato di Heath Ledger e Jake Gyllenhaal che si ritrovano in Brokeback mountain, o a Tom Hanks e Antonio Banderas vestiti da ufficiali di Marina e alla tenerezza infinita del lento che ballano abbracciati in Philadelphia.

In fondo i grandi amori, quelli per i quali si può vivere o morire, i tormenti di cuori pronti a tutto pur di superare ostacoli crudeli, oggi puoi raccontarli, scriverli, sceneggiarli soltanto se la coppia è gay. Viviamo in un mondo nel quale, per fortuna, si dà per assodato che sia l’amore l’unica ragione per la quale nasce una coppia, che un matrimonio non è un business o un affare di famiglia, che le mogli bambine siano una barbarie, che la decisione di sposarsi sia un diritto intimo e inviolabile che appartiene esclusivamente degli sposi: tutte conquiste abbastanza recenti (e purtroppo non ancora di portata universale) che sembrano avere lasciato agli omosessuali il poco invidiabile monopolio degli amori impossibili. In questo nostro tempo e in questo nostro occidente, e mai come nella nostra piccola Italia, è agli omosessuali che l’autorità (familiare, sociale, statuale) contrappone il divieto di costruire e trascorrere la vita insieme. Non ci sono più Montecchi e Capuleti, ma non manca mai un sottosegretario alla Famiglia, un alto prelato o un capopopolo che si arroga il diritto di fare la morale. E di vietare l’amore.

Invece succede ugualmente che ci si incontri e ci si ami. Con le conseguenze del caso, anche sul piano pratico. Mettere su casa e accorgersi di quanto sarebbe stato comodo potere fare affidamento su quella lista di nozze che non si potrà mai avere. Dirsi buonanotte la sera e salutarsi al mattino. Pagare l’affitto o la rata del mutuo. Gestire le famiglie di provenienza: quest’anno vigilia dai miei e Natale dai tuoi o preferisci il contrario? Pensare alle vacanze, gli amici miei e quelli tuoi che diventano nostri. I progetti di vita. Cambiare lavoro, decidere di assumersi un rischio soltanto perché si sa di essere in due. Immaginarsi vecchi, vecchissimi, e fare pure testamento. Come ironizzano i soloni impegnati a convincere gli omosessuali che una legge non serve a nulla? «Ma quale matrimonio: per tante cose basta andare dal notaio». Sarà. Dal notaio, comunque, bisogna andarci per tempo e per davvero.

E poi gli anniversari, i compleanni, le piccole sorprese. Tornare a casa dopo alcuni giorni trascorsi fuori e abbracciarsi sulla porta senza dirsi una parola. Il lusso di una serata a guardare Montalbano buttati sul sofà. I gatti che fanno le fusa. Svegliarsi nel pieno della notte, allungare la mano e sentire che ci sei, così mi riaddormento subito. I film, i libri, la musica, la nostra canzone. Infine i viaggi, le foto, i ricordi, che una vita in comune è fatta del piacere del loro accumularsi.
Di convivenze gay e lesbiche ne ho viste molte, ognuna fatta a modo suo. A rifletterci, l’assenza di modelli che tanta fatica causa durante l’adolescenza almeno un risvolto positivo ce l’ha: è utile per potersi inventare rapporti più liberi, fuori dagli stereotipi, dai vincoli della cultura e delle abitudini. Dove cucina chi ha voglia e cambia la lampadina chi ci pensa per primo, o chi lo sa fare o lo vuol fare. Dove essere una dual income couple, una coppia in cui si lavora (e guadagna) in due è un concetto concreto, visto che nessuno deve cedere il passo per definizione, come spesso accade alle donne nelle coppie eterosessuali. Dove non ci sono ruoli prestabiliti e convenzioni difficili da sfidare.
Anche lasciarsi può essere più semplice se in mezzo non ci sono avvocati, genitori, amici, vicini di casa, colleghi, che sentono il dovere di dire la propria, di trasformare una relazione al termine in un tiro alla fune astioso, in una guerra legale, sociale ed economica.

L’assenza di un riconoscimento da parte della società comporta l’esclusione di specifiche responsabilità e, fra i tanti problemi che crea, lascia le dinamiche sentimentali in una zona protetta, dove le cose appartengono interamente alla sfera dei sentimenti, del rapporto di coppia, del patto libero e reciproco tra persone.
La mancanza di pressioni dall’esterno rende il separarsi un passaggio altrettanto intimo del momento in cui si è deciso di cominciare a stare insieme. Si può accettare lo spegnersi di una storia più facilmente e decidere di preservare ciò che si è costruito. Senza altra amarezza che quella di un amore finito.
08 settembre 2010

l'U


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