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Se questo è un gay

Ultimo Aggiornamento: 04/11/2005 15:30
04/11/2005 15:30
 
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Integrazione. Matrimonio. Figli. Potere economico. Negli Usa i gay sembrano aver ottenuto tutto. Ma questa vittoria ha avuto un prezzo. Lo spiega un guru degli omosessuali
colloquio con Andrew Sullivan

di Andrea Visconti

È morta, finita, scomparsa. La cultura gay, trasgressiva, sofferta e isolata,- è ormai il passato. Ora c'è invece l'integrazione che è il passo successivo all'accettazione. Ma c'è anche il rischio che la fine della cultura gay significhi omologazione, appiattimento, una sorta di globalizzazione dell'identità sessuale. A dirlo è Andrew Sullivan, uno dei giornalisti più famosi del mondo, gay quarantaduenne, intellettuale britannico trapiantato da più di vent'anni negli Stati Uniti. Sullivan di recente ha pubblicato un lungo saggio sulla fine della cultura gay. E il prestigioso settimanale 'The New Republic' lo ha illustrato, in copertina, con l'immagine di due uomini vestiti come qualsiasi americano medio che guardano in modo paterno un bambino col pallone da basket in mano. Un'immagine di perfetta famigliola 'all american' che trasuda di normalità e valori tradizionali. E non ha niente di tragressivo.

"Un trionfo e una minaccia allo stesso tempo", scrive il conservatore e cattolico Sullivan, spiegando che per i gay è sempre stato un sogno che la loro sessualità non fosse degna di nota in famiglia, con gli amici, coi colleghi di lavoro. Ma il trionfo è una minaccia, perché per decenni i gay si sono identificati con la cultura del silenzio e della vergogna, e senza questi elementi si rischia la perdita di identità. "Voltare pagina è allo stesso tempo difficile e liberatorio, triste ed emozionante", scrive Sullivan: "Mentre socialmente facciamo passi avanti, siamo consci che in certe parti del paese e del mondo sta avvenendo l'esatto contrario". In particolare Sullivan, che è stato direttore di 'The New Republic' dal '91 al '96, punta il dito contro la religione: "Con l'avanzare del fondamentalismo la condizione dei gay è sotto attacco in molti luoghi, benché allo stesso tempo altrove essi si siano liberati dalla repressione".

Chiuso nel suo studio di New York, Sullivan sta finendo un libro sulla tradizione politica e filosofica dei conservatori che uscirà nel 2006. Ma ha voluto concedere questa intervista esclusiva a 'L'espresso' rubando un po' di tempo alla sua opera.

Signor Sullivan, lei dice che stiamo assistendo alla morte della cultura gay. Era inevitabile?

"A un certo punto la fine doveva venire: si avvicinava a mano a mano che i gay raggiungevano una nuova libertà individuale ed economica. La cultura gay era minacciata dal fatto stesso che una massa notevole di uomini e donne gay stava interiorizzando il concetto di essere alla pari di qualsiasi altra persona, di avere lo stesso valore di chiunque altro all'interno della società".

È stata una fine lenta e graduale, allora.

"Quando ci sono moltissimi gay che vivono la loro realtà alla luce del sole, quando gay e lesbiche si dichiarano anche nel mondo del lavoro, quando uomini e donne ammettono la propria sessualità anche in famiglia, allora si è raggiunto il punto in cui è possibile un'integrazione all'interno della cultura dominante. In Massachusetts, come in Olanda, è stato abolito il termine 'matrimonio gay', perché ora le coppie omosessuali sono sposate e basta. Non c'è distinzione né legale né culturale fra il matrimonio fra gay e quello fra etero. La cultura dell'esclusione è finita".

E come si è arrivati a questo punto?

"È stata la forza economica dei gay a mettere in moto questo processo, l'accelerata è venuta dalla crisi dell'Aids e lo sprint finale è stato dato dal riconoscimento dei matrimoni fra gay. Per la prossima generazione di gay quasi certamente non ci sarà una cultura separata di particolare rilievo".

Quando lei parla di cultura gay fa riferimento anche a bar e saune. Molta gente le contesterebbe che quella sia cultura...

"Mi riferisco a uno stile di vita che comprende sia uomini che donne gay. Intendo la cultura in senso lato, cioè una cultura che si è formata in risposta all'emarginazione sociale e dunque ci metto dentro anche bar e saune, travestiti e appassionati del 'leather'. Stiamo parlando dunque di un sistema di connessione sessuale ed emotiva che si è formata, per necessità, al di fuori del contesto di famiglie tradizionali o non tradizionali".

Ci sono aspetti della cultura gay che si sono diffusi nella società in generale?

"L'arte più bella è spesso il frutto della sofferenza e dell'isolamento, ed è questo che verrà a mancare; quel potente connubio fra vita gay e tragedia".

A livello di comunità i gay non vivono più una realtà fatta di tragedia. Anzi, vivono una quotidianità borghese e tranquilla fatta delle normali preoccupazioni della classe media. Lei guarda al passato con nostalgia?

"È quella che si chiama 'maturità'. Siamo ora pronti a integrare l'amore, il sesso e la famiglia, una cosa che gli etero fanno da sempre e danno per scontato. Siamo diventati adulti e i nostri valori si sono trasformati da trasgressivi a borghesi".

Se i gay non sono più trasgressivi chi lo è più? Chi ha ereditato la trasgressione che è stata simbolo della comunità gay attraverso droga, promiscuità, party, moda, mode e tendenze?

"Chiunque voglia ancora essere trasgressivo lo può essere, anche i gay naturalmente. Ma la trasgressività non è più appannaggio loro. Adesso essere trasgressivi è una scelta, non una condizione".

Lei si è sempre riconosciuto con i conservatori. Significa che è contento della fine della cultura trasgressiva gay?

"Dal punto di vista economico sono un conservatore, ma in questioni sociali sono sempre stato un libertario. Ritengo che la gente - sia etero che gay - debba vivere come crede, in base ai propri principi morali. Non sta a me giudicare gli altri, ma allo stesso tempo è storicamente vero che i gay e le lesbiche sono stati visti come dei peccatori un po' sporchi. Ed è chiaro che questo ha condizionato il loro comportamento. Se non si dà alla gente qualcosa a cui aspirare , come per esempio il matrimonio, allora non ci si può sorprendere se queste persone non rispondono alle aspettative della società. Se invece i gay sono trattati da pari, allora si può pretendere da loro la stessa responsabilità sociale e individuale che si chiede a chiunque altro".

Quando parliamo di cultura gay che cosa c'è di unico e irripetibile che la differenzia dalla cultura di altre minoranze, per esempio i neri, gli ebrei o gli italo-americani?

"Prendiamo per esempio i bambini neri: vengono al mondo in una società che allo stesso tempo sente il peso e l'orgoglio del passato che l'accomuna. Attraverso istituzioni culturali e comunitarie, come per esempio le chiese, questo passato si tramanda di generazione in generazione e costituisce la base attraverso la quale un individuo si identifica e si riconosce nella sua comunità. Ma i bambini gay fino ad ora non hanno mai avuto tutto questo. Durante gli anni più formativi si sono sempre trovati a prendere coscienza della loro diversità. Ma questo è oramai cambiato: adesso gli adolescenti gay e quelli etero hanno gli stessi punti di riferimento sociali e culturali. Psicologicamente si sentono più sicuri, meno isolati e più simili ai loro coetanei. La trasformazione avvenuta negli ultimi anni è a dir poco sensazionale. Pensiamo per esempio al Boston College, un'istituzione universitaria cattolica: fino alla generazione scorsa la parola omosessualità non veniva neppure discussa. Sono stato lì di recente e ho conosciuto il presidente del corpo studentesco: è un ragazzo preppy, conservatore e gay. Quello che è avvenuto al Boston College sta avvenendo in dozzine di università in tutta America".

Lei ha fatto l'esempio di una prestigiosa istituzione cattolica. In Italia il cardinale Ruini ha espresso senza mezzi termini la sua opposizione alle unioni fra gay. Le sembra che la Chiesa cattolica si stia muovendo controcorrente sia per quanto riguarda l'integrazione e l'assimilazione dei gay?

"È triste ammetterlo ma è così. La Chiesa non sa affrontare questo tema e uno dei motivi è perché la Chiesa stessa fa parte della vecchia cultura gay".

Prego?

"Vuole sapere che cos'è la vecchia cultura gay? Ebbene, il Vaticano e la chiesa ne sono l'ultimo bastione. Perché la vecchia cultura gay è la cultura della vergogna della propria sessualità. È per questo che sono così restii al cambiamento e non vogliono la nuova cultura gay integrata. Perché ci sia un vero cambiamento dobbiamo aspettare un salto generazionale".

Sono parole forti. Ma la cultura gay di nemici ne ha molti, non solo la Chiesa cattolica. I fondamentalisti cristiani in America saranno contenti di sentirle dire che la cultura gay è finita. Oppure temono ancora di più l'assimilazione?

"In generale la destra conservatrice è contraria alla promiscuità sessuale; allo stesso tempo non vuole neppure che i gay si sposino. Ma allora che cosa vogliono? Non possono averla vinta su ambedue i fronti. Paradossalmente, l'alleato più forte della vecchia cultura gay è proprio la destra religiosa che preferisce puntare il dito contro l'emarginazione anziché abbracciare l'integrazione. La loro speranza è che magicamente un giorno smetteremo di esistere, che è naturalmente una fantasia perché gli omosessuali esistono da sempre e continueranno a esistere. A un certo punto la destra religiosa si troverà a dover scegliere: è meglio includere i gay per il bene collettivo oppure emarginarli per sempre? È meglio chiedere ai gay di essere cittadini responsabili oppure negare la loro esistenza e usarli come capro espiatorio?".

Dopo l'America, secondo lei la cultura gay sta morendo anche nel resto del mondo?

"La cultura gay era diventata globale. Quello che avviene in America avverrà domani in Italia. Il cambiamento sta già avvenendo, non è più possibile fermarlo".
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